A passo lento in Abruzzo, tra zafferano, sise delle monache e torrone
Posted on 7 novembre 2020
Quell’Abruzzo slow di sapori antichi e cammini tra vette e cielo
Partendo magari dalle montagne che circondano il capoluogo, L’Aquila. Le memorie della transumanza restano vive tra i pascoli d’altura e le grandi produzioni casearie che ne derivano. Come il particolare caciofiore aquilano, messo a punto con latte di pecora e che sfrutta come coagulante vegetale il fiore del carciofo selvatico. Al latte fresco viene aggiunta una piccola quantità di zafferano, eccellenza del territorio di Navelli. I canestrini e le fuscelle nelle quali riposa per un paio di giorni il prodotto che viene lavorato dopo la rottura della cagliata conferiscono alla superficie un caratteristico aspetto a righe. Dopo una stagionatura che varia dai 40 ai 60 giorni il prodotto si presenta con una forma cilindrica più o meno schiacciata e un colore che varia dal giallo chiaro al paglierino. Si accennava Navelli e al suo “oro rosso”. Ma nell’altopiano che accoglie il borgo a circa 30 km da L’Aquila anche i mandorli, nella stagione della fioritura, contribuiscono a colorare l’area con una vividezza degna di un quadro d’autore. Le caratteristiche del territorio e il microclima contribuiscono a tipizzare ciò che nasce su questi alberi, che hanno rappresentato per i contadini della zona una risorsa a tutto tondo nei secoli. Le mandorle qui maturano tardi rispetto alla media, con la raccolta che avviene in autunno. Importanti le tradizioni di dolci tipici che vengono preparati tra le viuzze strette che separano gli antichi edifici di pietra del borgo.
È sotto la superficie che crescono invece le radici della genziana, la cui raccolta indiscriminata è vietata in quanto specie protetta. Queste stesse radici, una volta essiccate, vengono messe a macerare nel vino bianco con l’aggiunta di alcol e di una soluzione di acqua e zucchero. Una serie di operazioni che precedono il filtraggio e l’imbottigliamento del digestivo che prende il nome dal fiore stesso. Le proprietà quasi taumaturgiche di questo autentico simbolo della tradizione locale vengono decantate senza riserve nei testi di numerosi letterati transitati per le terre abruzzesi nei secoli passati. E in ogni famiglia di tramanda una ricetta personale. Il Liquorificio d’Abruzzo di Ovindoli ne mette a punto anche una versione in barrique.
E proprio da Ovindoli si arriva con facilità a ridosso del Fucino, che un tempo ospitava il terzo lago più esteso d’Italia e che oggi si presenta con le sue sterminate colture di ortaggi, su tutti patate e carote. L’altitudine media superiore ai 650 metri e le caratteristiche del terreno fanno assumere a questi prodotti delle proprietà peculiari. Ma nel territorio che segna il confine tra l’altopiano e il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise prende forma anche un’altra coltivazione tipica, quella delle mele della Valle del Giovenco. A un’altitudine media di 900 metri la tradizione oggi si mantiene viva grazie al lavoro di poche decine di produttori, per lo più a conduzione familiare, impegnati nell’intercettare piccole fette di mercato nella regione e poco oltre il confine con il Lazio. Limoncelle, Cerine, Renette, Rose, Golden e Red Delicious sono mele profumate e saporite come solo il rispetto della più viva natura può garantire. Per informazioni sui produttori e gli eventi relativi al prodotto. Per informazioni sui produttori e gli eventi relativi al prodotto info@valledelgiovenco.it
Dalla Marsica alla Valle Peligna, rotta verso Sulmona. Ha qui sede il consorzio Produttori Solina d’Abruzzo, che riunisce le aziende agricole che hanno deciso di riscoprire un grano antico di territorio. Una varietà il cui utilizzo nella pasta e nei prodotti da forno restituisce aromi e sapori connaturati alla storia dell’Abruzzo profondo. “Quella di Solina aggiusta ogni farina” è solo uno dei detti popolari che raccontano del suo legame con le coltivazioni dell’entroterra. Una rinnovata sensibilità della filiera agroalimentare regionale verso la riscoperta di queste radici dell’alimentazione locale è stata protagonista in questi ultimi anni. La capacità di questa pianta di resistere a climi proibitivi le permette di essere coltivata anche oltre i 1400 metri. Le radici affondano così, dopo la semina che avviene nel periodo autunnale, in terreni poveri sui quali ancora oggi si ha premura di conservare ritmi e modalità di produzione legati al biologico. Restando a Sulmona, non si può non menzionare l’aglio rosso. Oltre al colore della tunica, peculiare è la dimensione: se i comuni bulbi hanno infatti un diametro di circa 45 mm, quelli coltivati in questo frammento d’Abruzzo superano i 50 arrivando fino a 70. E poi un odore e un aroma intensi e caratterizzati da una pervasiva piccantezza fanno di questa pianta un valore aggiunto per una sconfinata serie di ricette, dai classici spaghetti “aglio e olio” alle zuppe con la verza, fino al suo utilizzo in polvere in sfizi come le crocchette di patate. Il Consorzio Produttori Aglio Rosso di Sulmona tramanda la tradizione.
Da Sulmona il viaggio prosegue verso la Majella, entrando nella provincia di Chieti e camminando fino a Guardiagrele. È una importante tradizione dolciaria quella coltivata nella “città di pietra”, come la definì Gabriele D’Annunzio nel romanzo “Il trionfo della morte”, patria di specialità come le sise delle monache e, appunto, il tipico torrone locale. Si tratta in realtà più propriamente di un croccante messo a punto con un impasto di mandorle, zucchero, cannella e frutta candita. A ideare la ricetta sembra sia stato, sul finire dell’Ottocento, il pasticcere del luogo Giuseppe Palmiero, ispirato da un lungo soggiorno a Napoli. Tra gli estimatori di questo prodotto figurava lo scrittore di origini marsicane Ignazio Silone, che si racconta fosse solito fornirsi di una scorta di torroni da regalare ai suoi amici a Roma. La carta tricolore con la quale i primi pasticceri erano soliti avvolgere questa creazione è ancora il “biglietto da visita” con il quale si presenta. Dove trovarne? Da Lullo.
Nella vicina Fara Filiorum Petri si coltiva invece la cipolla bianca piatta, chiamata anche “piattona”. Testimonianze della cipolla bianca si ritrovano già nei testi che parlano del lavoro dei monaci del locale convento di Sant’Eufemia nel 1300. Il ciclo naturale è legato alla stagione estiva. Per acquistarne, la Fattoria del Nonno e Stefania Ranieri. Nuova tappa, Lanciano, per conoscere gli ‘ndurciullune. Questa pasta tirata a mano ha come base la semola di grano duro e la farina di grano tenero, mentre come forma caratteristica quella di spaghetti lunghi e sottili a sezione rettangolare. La semola rappresenta il 70% della miscela lasciando il resto alla farina; ad esse si aggiunge un 50% di acqua e un pizzico di sale. Una volta realizzato l’impasto entra in scena il “carraturo”, termine dialettale che indica la chitarra formata da un telaio in legno sul quale sono tesi i fili di acciaio che permettono di formare i lunghi fili alla base dei più tradizionali primi piatti. Le ricette più gettonate per i pranzi domenicali sono quella con il sugo di castrato e con il sugo di pecora. Nel laboratorio di Corona, proprio a Lanciano, prende vita ogni giorno la valorizzazione della pasta fresca tramandata dalla tradizione del territorio.
Una volta giunti in questa parte d’Abruzzo non bisogna farsi scappare la ventricina del vastese. Le protagoniste assolute di questa tipicità sono le parti nobili del maiale, dal lombo al prosciutto, che contribuiscono a formare l’80% di parte magra che contraddistingue il prodotto finale. Le carni vengono tagliate al coltello in cubetti che variano dai 2 ai 4 centimetri, per una composizione a grana grossa che rende riconoscibili al taglio finale gli elementi che la compongono, compresi i pezzi di grasso. Delicate e fondamentali sono l’essiccatura e la tostatura del peperone dolce rosso, perché in questi passaggi è racchiuso il segreto di un gusto e di un aroma riconoscibili ma al contempo non definibili come “piccanti”. L’impasto viene insaccato in vesciche o budelli di maiale, lavati e lasciati deodorare in acqua con aceto, buccia d’arancio, aglio e alloro. La stagionatura può variare da un minimo di 100-120 giorni fino a 8 mesi. Dal 1993 Luigi Di Lello e la sua Fattorie del Tratturo seguono la produzione di una leccornia che arriva a valle di una filiera composta da agricoltori, allevatori e trasformatori locali federati nell’Accademia della Ventricina. Da Vasto, città legata a una grande tradizione del brodetto, si risale la Costa dei Trabocchi, con le “macchine da pesca” a solcare il mare e gli agrumeti a impreziosire le campagne del primo entroterra. Qui si tiene viva la memoria dei celli ripieni, dolce tipico che trae la sua forza da ingredienti strettamente legati alle dolci colline puntellate di viti. È infatti la marmellata di mosto d’uva, detta anche “scrucchiata”, a entrare in sinergia con noci, mandorle, cioccolato fondente e scorza d’arancia grattugiata, olio evo, vino bianco, farina e zucchero. Per gustare questa tipicità la pasticceria Rossana Iezzi.
Dal dolce al salato, ecco la verace e ormai rara annoia, la cui produzione avviene tra dicembre e gennaio. Conosciuta nel dialetto anche come nuje o annuje, viene preparata utilizzando le budella, la “rosetta” e lo stomaco del maiale. Questi ultimi vengono lavati con acqua e farina di mais, prima di essere ulteriormente passati in un contenitore dove sono state precedentemente messe a macerare bucce d’arancia in acqua. A questo punto, le interiora vengono lessate per circa due ore. Successivamente, una volta raffreddate, si tagliano a striscioline sottili per poi conciarle con sale, semi di finocchio e peperoncino. Il risultato di questi passaggi viene insaccato nel budello naturale del maiale. La forma e l’aspetto finali sono quelli di una salsiccia fresca. Il consumo avviene a pochi giorni dalla messa a punto, periodo durante il quale l’annoia è lasciata riposare, appesa, in locali riscaldati dal camino. Alla Beccheria di Chieti è Graziano Di Nisio a mettere a punto questa tipicità.
Si arriva alle porte di Pescara. È il momento di conoscere il fiadone dolce, versione “marinara” di un prodotto che nell’entroterra è conosciuto nella sua variante salata. In entrambi i casi la base da cui parte la lavorazione è un paniere di elementi della tradizione campagnola: uova, latte, olio d’oliva, burro. Questi vengono uniti a farina e zucchero e impastati per ottenere la sfoglia nella quale sarà inserito un ripieno che trova nel formaggio il suo elemento distintivo. Nella città adriatica se ne può provare una versione da Chitarra Antica.
Si torna tra le colline, nella valle del Tavo, dove si coltiva il fagiolo tondino. La semina avviene dopo la metà di giugno, la fioritura dopo la seconda decade di agosto e la maturazione e raccolta, rigorosamente manuale, avviene dopo la seconda decade di ottobre. Il seme ha una colorazione che va dal bianco latte all’avorio, mentre la forma è tondeggiante e il baccello ha una forma allungata, e può contenere fino a otto semi. I produttori del fagiolo tondino sono riuniti in una comunità di agricoltori insediati lungo la vallata nel comprensorio delimitato dai comuni di Farindola, Penne, Loreto Aprutino, Collecorvino, Moscufo e Cappelle Sul Tavo.
Ed eccoci pronti a scoprire la provincia di Teramo. Si cammina verso i calanchi di Atri, patria di grandi produzioni a base di liquirizia e di un rinomato formaggio pecorino. La tipicità di questo formaggio deriva da un lato da una particolare procedura di cottura e, ancor più nel profondo, dall’alimentazione degli ovini che pascolano su questo territorio. Dopo il passaggio nei canestri di giunco, il posizionamento su assi inclinati per la fuoriuscita del siero e la salatura, inizia una stagionatura che può andare da un brevissimo periodo di poco superiore al mese fino ai due anni. Tra i produttori, l’Azienda Agricola D’Amario e Feliciani in contrada Paterno.
Rotta verso la Val Vomano, destinazione Canzano, borgo famoso per due tipicità. La prima è lavorazione del merletto. La seconda è una ricetta per la preparazione del tacchino. La leggenda racconta di una scoperta casuale, a metà Ottocento, in merito al brodo di tacchino che, preparato nelle prime ore della mattina e dimenticato in una pentola, alla sera era diventato gelatina. E così oggi i tacchini femmina sono la irrinunciabile base per una preparazione che proprio con quella gelatina viene esaltata.
Si torna nell’area del Parco del Gran Sasso e Monti della Laga; al confine con le Marche, castagneti secolari impreziosiscono il territorio di Valle Castellana, borgo legato alla produzione dei tipici marroni. Testimonianze della cura di questo prodotto si ritrovano già nel XIII secolo. La forma ovale-ellittica del frutto è accompagnata da un colore lucido e caratterizzato da striature rossastre. Le dimensioni sono variabili, segno di coltivazione orientate al rispetto dei metodi biologici. Una breve immersione in acqua e successiva asciugatura stabilizzano un prodotto che si conserva così per la vendita. Il cammino continua fino a incontrare la Val Vibrata e i sassi d’Abruzzo, dolciumi chiamati così perché alla vista sembrano dei sassi ricoperti di terra, e infatti sono conosciuti anche come mandorle atterrate. Vengono preparati soprattutto in coincidenza con occasioni di famiglia come battesimi e matrimoni. Alla base della preparazione mandorle, zucchero, acqua, cacao amaro e cannella, anche se non mancano gustose varianti e qualcuno aggiunge anche una scorza di limone o del caffè. Il tutto viene messo sul fuoco in una padella così che lo zucchero si sciolga in parallelo all’evaporazione dell’acqua. Successivamente si dovrà aver cura di separare le mandorle l’una dall’altra per poi ripassarle di nuovo sul fuoco per pochi minuti. L’ultimo passaggio è quello del raffreddamento. A Sant’Egidio alla Vibrata queste specialità si possono trovare da Corradetti.
Ultima “tappa golosa”, la capra alla neretese, che deve il nome al borgo di Nereto, ma è in realtà radicato anche nei vicini centri di Torano Nuovo, Corropoli, Controguerra, Sant’Omero, Ancarano e Colonnella. Alla base c’è ovviamente la carne di capra, alla quale si uniscono pomodori freschi, olio, sedano, cipolle, peperoni e chiodi di garofano. Il cosciotto viene disossato e tagliato in tocchi di media grandezza (avendo cura di eliminare le parti troppo grasse) per essere poi lavato e sbollentato. I peperoni saranno stati nel frattempo rosolati e conservati a parte e i pomodori sbollentati; dopo aver inserito i chiodi di garofano nelle cipolle le stesse saranno passate nell’olio in padella. A questo punto il tutto finirà progressivamente nella stessa padella e sfumato col vino bianco per una cottura di circa due ore, accompagnata dalla massima attenzione nel dosare acqua e sale così che il sugo possa addensarsi in maniera armoniosa mano mano che verranno aggiunti gli elementi preparati a parte (per ultimi, i peperoni). Per gustarla ci si accomoda da Zio Mamo.
La Guida di Repubblica dedicata ai Cammini d’Abruzzo dal 9 novembre sarà disponibile in edicola, libreria e online su Amazon, Ibs e sullo store.
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